La necessità di realizzare il connubio tra libertà di movimento e distribuzione dei carichi, ha condotto alla progettazione di componenti a maggiore congruenza ma con assoluta libertà di movimento grazie all’utilizzo di un inserto meniscale mobile, come nella protesi monocompartimetale Oxford III. Questa è caratterizzata dalla conformazione della componente femorale a segmento di sfera che si articola a piena congruenza con l’inserto meniscale piatto inferiormente che “poggia” sulla componente tibiale (Fig.1). Si realizza così un modello di doppia congruenza round on round – flat on flat.
Analizziamo i principali motivi di critica
Per quanto concerne la potenziale instabilità dell’impianto, l’analisi delle tensioni capsulo- legamentose sul compartimento mediale del ginocchio ha evidenziato come la risultante di tali tensioni determini forze sostanzialmente ortogonali alle superfici di interfaccia femoro-tibiale. Si spiega così la minima tendenza nella flesso-estensione alla traslazione dell’area di carico, costituendo una sorta di meccanismo di autobilanciamento e centramento, all’interno del quale ad una sollecitazione articolare corrisponde una maggiore tensione di tali strutture (Fig. 2).
Ne deriva una riduzione dei rischi di complicanze post-operatorie, una riabilitazione più agevole ed una performance articolare migliore, spesso associata ad una maggiore sensazione di “naturalezza” (propriocezione) del ginocchio operato. Tuttavia, le indicazioni all’impianto monocompartimentale sono più ristrette rispetto a quelle relative alla sostituzione totale. Tale opzione, infatti, esige l’integrità dell’apparato capsulo-legamentoso (crociati e collaterali), del compartimento controlaterale, in assenza di deviazioni angolari non correggibili clinicamente e perdita di oltre 10 gradi dell’estensione. Anche le patologie infiammatorie a genesi immunitaria come l’artrite reumatoide costituiscono una controindicazione per la loro capacità di coinvolgere l’intera articolazione nel processo patologico. Maggiore tolleranza è concessa all’artrosi femoro- rotulea che se non sintomatica in assenza di sublussazione rotulea, non controindica l’intervento, come ben descritto in Letteratura. La protesizzazione del solo compartimento degenerato, però, implica la necessità di “armonizzare” l’impianto protesico col ginocchio del Paziente, realizzando un progetto nel quale “l’Articolazione” continua ad esistere. Si è posto, quindi il problema di come gestire la variabilità dei rapporti tra femore e tibia durante il movimento. Questo aspetto è stato ben affrontato dalle protesi a menisco fisso ed ottimizzato con le protesi a menisco mobile che permettendo ampie aree di contatto tra il menisco e le componenti metalliche, hanno portato a risultati sorprendenti sull’usura del polietilene di cui è costituita la componente meniscale. In presenza di un impianto correttamente posizionato, infatti, gli studi hanno dimostrato che sarebbero necessari 100 anni di utilizzo per avere un sufficiente volume di particelle da consumo tali da innescare processi di osteolisi (riassorbimento osseo) e 300 anni di utilizzo per avere una significativa deviazione angolare del ginocchio a causa della riduzione di spessore da usura del menisco. A conferma di tali dati, la letteratura Internazionale riporta tassi di sopravvivenza dell’impianto monocompartimentale a menisco mobile di oltre il 95 per cento ai 10 anni. Si può quindi concludere che la protesi monocompartimentale di ginocchio possa essere considerata un intervento risolutivo e non temporaneo nel trattamento della gonartrosi, purchè eseguita da mani esperte nel pieno rispetto delle indicazioni.