Nella patologia ortopedica la casistica è ampia e la risposta agli interventi di recupero varia a seconda della gravità del problema, del danno anatomico e dell’età del paziente. La domanda nasce però da un’esigenza comune: è possibile, nei diversi casi, accelerare il processo di rigenerazione tessutale e agevolare il recupero dal trauma, la lesione, il logoramento, l’intervento chirurgico? La risposta è sì: attraverso una nuova metodica, che si basa su solidi presupposti e una già consistente letteratura medica internazionale, il trattamento rigenerativo dei tessuti muscolare, tendineo, osseo, cartilagineo ha fatto registrare risultati più che lusinghieri. “Si tratta di impiantare cellule mononucleate autologhe del sangue periferico, appartenenti quindi al paziente stesso – spiega Piernicola Dimopoulos, specialista in Ortopedia e Traumatologia – è una tecnica all’avanguardia che sposa le metodiche più sofisticate alla semplicità del trattamento”.
“Al paziente viene prelevato del sangue periferico dal quale, mediante un sistema che non permette al sangue di entrare mai a contatto con l’esterno, vengono filtrate e concentrate le cellule mononucleate (Monociti e Linfociti, ossia cellule del sistema immunitario). Tale concentrato cellulare viene quindi iniettato nella sede prescelta. Monociti, una volta impiantati, si differenzieranno in Macrofagi”.
I macrofagi – gli “spazzini” del sistema immunitario – hanno in realtà un ruolo fondamentale nel processo di rigenerazione tessutale: Quando avviene un trauma, una lesione, un’aggressione di tipo chirurgico, o quando è presente una patologia di tipo degenerativo articolare, entrano in gioco mediatori chimici e cellule. Vengono infatti attivate popolazioni di macrofagi, in un primo momento macrofagi M1, che inizialmente stimolano il processo infiammatorio (reazione all’evento nocivo), potenziando però al tempo stesso la risposta dell’organismo all’insulto e favorendo l’attivazione di macrofagi M2. Questi ultimi spengono il processo infiammatorio, lo modulano e favoriscono la trasformazione delle cellule mesenchimali che arrivano nel sito della “battaglia”. L’impianto di Monociti in corrispondenza di una lesione permette di spegnere l’infiammazione, inducendo l’attivazione dei Macrofagi M2 e delle mesenchimali residenti, con conseguente avvio di un corretto ed efficace processo di rigenerazione fisiologico.
Il processo di sviluppo delle biotecnologie è stato progressivo ed ha seguito a ritroso il naturale svolgersi degli eventi biologici: si parte dai fattori di crescita di derivazione piastrinica, si passa attraverso le cellule staminali, si arriva alla centrale che governa la trasformazione di quest’ultima popolazione cellulare. Piernicola Dimopoulos affida a un’immagine la spiegazione dell’intero processo, che segue i passaggi propri dell’organismo: “Con tale metodica abbiamo impiantato i piloti – dice – e così il processo di rigenerazione sarà più stabile e duraturo”. L’impianto di cellule mononucleate autologhe del sangue periferico è il “futuro che sta arrivando”: numerosi e relativamente recenti studi in Letteratura Internazionale (anni 2000) sostengono la validità assoluta della tecnica, che non altera, e anzi favorisce, i processi naturali.
Quando può essere utilizzata?
“I tessuti che si possono rigenerare sono molteplici, tra cui quello muscolare, tendineo, osseo, cartilagineo e dermico. Si può ricorrere all’impianto delle cellule mononucleate autologhe da sangue periferico ad esempio in caso di fratture che stentano a guarire, nella patologia tendinea o della cartilagine.”
“In pratica – descrive il dottor Dimopoulos – è come se mettessimo un “turbo” nel sistema di rigenerazione tessutale, ottimizzando qualità e quantità del processo. Le controindicazioni costituiscono un elenco limitato: no alla procedura in caso di patologie tumorali. Non esistono teorici limiti di età, anche se Dimopoulos avverte: “In età avanzata non ci sono i presupposti ideali all’utilizzo della tecnica cellulare perché il paziente spesso ha un danno con componenti croniche degenerative: l’impianto delle cellule potrebbe dare una risposta dal punto di vista infiammatorio, considerata la loro azione immunomodulante, ma non rigenerativo”.
La premessa importante al buon esito del trattamento è che si tratti di un paziente biologicamente attivo. Si valuta caso per caso, ma è evidente che un giovane adulto ha migliori chance di successo. Anche perché in un paziente giovane è più facile individuare un danno localizzato e ripristinare la funzionalità. Con la senescenza, il progressivo impoverimento delle potenzialità biologiche fa decadere l’indicazione a tale trattamento. Schematicamente potremmo porre il ‘giro di boa’ all’interno della sesta decade di vita.